Ad oggi, grazie anche ad organismi internazionali come l’Onu, che attraverso strumenti come l’Agenda 2030 hanno stabilito quali sono i temi sui quali la politica dovrà agire con tempistiche ben definite, la sostenibilità è sempre di più sentita come un’urgente necessità. Questo si riflette da tempo sul mercato: concetti come salvaguardia dell’ecosistema e rispetto dell’ambiente vengono utilizzati per accrescere l’appeal dei prodotti. Non bisogna perciò rimanere stupiti se alcune imprese amplificano le loro azioni sostenibili e altre rischiano il “green washing”.
Ma cosa si intende per “green washing? Il “green washing” è sinonimo di inganno nei confronti dei consumatori, in primo luogo sulle credenziali di sostenibilità di un prodotto o di un servizio, ma soprattutto sulla performance di sostenibilità dell’azienda nel suo insieme. A questo proposito, l’Ombudsman danese, istituto speculare alla nostra Autorità a tutela della competizione e del mercato (AGCM), è recentemente intervenuta sull’uso improprio dei cosiddetti green claim. Con lo scopo di combattere il green washing (fake sustainability) ha stabilito che senza un criterio obiettivo di previsione e misurazione dei sistemi energetici e ambientali e degli effetti possibili legati a un prodotto o un servizio, a un andamento o più in generale a un’attività lungo l’intero ciclo di vita, , non si possono impiegare “slogan” sulla sostenibilità. Questo metodo oggettivo di valutazione e quantificazione è definito nel linguaggio tecnico Life Cycle Assessment (LCA).